Una figlia, un padre, un delitto: viaggio nel dolore, nella colpa e nella possibilità di rinascere

*Una figlia*, di Ivano De Matteo, racconta il dramma di un padre e una figlia segnati da un delitto, colpa, dolore e possibile rinascita.

Una figlia, un padre, un delitto: viaggio nel dolore, nella colpa e nella possibilità di rinascere
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16 Aprile 2025 - 19.04 Globalist.it


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  di Maria Antonietta Coccanari

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  E’ del regista Ivano De Matteo. Porta di nuovo sul grande schermo, dopo il pluripremiato MIA, un’altra storia drammatica di un padre e una figlia adolescente a confronto. I due film raccontano esperienze differenti e tuttavia ugualmente gravi. Vagamente ispirato anche a fatti di cronaca, in particolare alla vicenda di Erika e suo padre, UNA FIGLIA è tratto dal romanzo “Qualunque cosa accada” di Ciro Noja che collabora alla Sceneggiatura, rigorosa ed essenziale, ritmicamente perfetta, con il regista stesso e con la compagna di questi, Valentina Ferlan, sottraendo al libro i tratti violenti della protagonista per delinearne soprattutto smarrimento e riparazione.

  In questo film Stefano Accorsi dà uno spessore notevole al travaglio di un vedovo che dopo alcuni anni trova una stabilità quotidiana con la gentile dolce Chiara (Thony) che era stata l’infermiera di sua moglie. Ma la figlia Sofia (Ginevra Francesconi) che non ha superato la morte della mamma, che si dibatte tra nausee e incubi, non l’accetta. La odia. In uno dei rabbiosi dialoghi in cui la donna, che si scoprirà essere incinta, cerca di comprendere e andare incontro al disagio della ragazza, questa, mentre affetta un salame in cucina, la uccide con lo stesso coltello. “Prima o poi crolla tutto” aveva appena finito di sussurrare Chiara.  

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    Conseguenze legali, certo, ma soprattutto conseguenze esistenziali. Omicidio d’impeto preterintenzionale è la sentenza, corredata naturalmente dai processi mediatici in TV, sui social. 

    Il padre si rifiuta di andarla a trovare nell’Istituto penale per Minori. Poi un’amica avvocatessa ha un ruolo nel trasformare lentamente questo rifiuto in un nuovo incontro e in una nuova opportunità di progetto. Anche Sofia si trasforma, dal dolore mutacico, pietrificato, dall’isolamento rispetto alle altre detenute, dal pianto unanime, dal tentativo di suicidio con impiccagione. E anche lei intravede la prospettiva di un nuovo inizio, una nuova nascita (non solo psicologica), anche con l’aiuto delle compagne prima dure poi affettuose, e delle tecniche di riabilitazione con tutte le attività dove Sofia mette anche a frutto la sua abilità nell’ippoterapia. Una educatrice empatica le indica il dono del coraggio e della Speranza. Per un gattino in cortile costruisce una cuccia e gli dà da mangiare. Impara piano piano a perdonarsi, e a prendersi cura di sé, degli animali che adora, delle persone che esistono, di quelle che verranno, a tollerare un colpa e un  dolore “che si porterà tutta la vita”. Ma “dopo ogni disastro la vita riprende”.

   Polizia e secondini sono a loro volta brutali o umani. Notevole la capacità di Di Matteo, che ha girato nel Carcere minorile di Casal del Marmo, di guardare ogni cosa dal grandangolo senza pre-giudizi, in equilibrio ammirevole tra emozione e razionalità che tiene sempre il tema ben saldo additando, senza iperboli, senza inclinazioni moralistiche, ma con grande dolore, grande humanitas, grande pietas, una grande lezione di vita.

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    Molto intensa la resa di ogni interprete, anche in incisivi primi piani. Sempre intenso, e sottile, anche il regista, che padroneggia contenuti psicologici complessi, attento a numerosi dettagli che creano un climax permeato da violenza, tenerezza, redenzione, e superamento del ruolo di figlia pronta per un passaggio di fase oltre che per nuove libertà. 

   Scene simboliche rimandano con chiarezza a temi fondamentali. Per esempio, all’edipo e alla castrazione, quella che si diceva in cucina preceduta dall’arrotino che per strada grida che affila coltelli; o ancora, un cancello ripetutamente inquadrato, come a segnare confini, entrate e uscite incessanti da una condizione a un’altra; o la vetrata dove il padre riflette il suo doppio spia del conflitto;  o le foto segnaletiche, con la nudità obbligatoria, pudica e brutale dove le gambe nitide contrastano con il volto sfumato come a sancire una diffusione d’identità in una catastrofe annunciata; o il pianto del padre su uno sfondo rosso come tutto il sangue della loro storia:  o la farfalla che vola proprio al momento dell’ingresso nella Casa di detenzione. Essa porta la leggerezza dell’adolescenza, e la possibilità del volo verso l’alto dopo l’abisso disperato. E, dominante, in ogni scena, l’implacabile pregnanza del non detto.

   Da non perdere.

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