di Marco Brocchieri
L’8 settembre 1943 segna una frattura nella storia d’Italia. Con l’annuncio dell’armistizio tra il Regno d’Italia e gli Alleati, centinaia di migliaia di soldati italiani, sparsi su tutti i fronti, si trovarono improvvisamente senza ordini né guida. La macchina militare tedesca, però, era tutt’altro che impreparata: con l’operazione Achse, i nazisti scatenarono un’offensiva rapida e implacabile, occupando l’Italia centro-settentrionale e disarmando interi reparti italiani. Fu l’inizio di una tragedia spesso trascurata: quella degli Internati Militari Italiani, noti con l’acronimo IMI.
Circa un milione di soldati italiani vennero catturati. Di questi, ben 600.000 rifiutarono di collaborare con la Germania nazista o con la Repubblica Sociale Italiana. Fu una scelta consapevole e coraggiosa, motivata da sentimenti di fedeltà al Re, di onore militare e di opposizione all’ideologia nazifascista. Ma la conseguenza fu durissima: la deportazione nei lager sparsi in Germania e nei territori occupati. Per evitare di applicare loro la Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra, Hitler decise di creare un nuovo status giuridico: Internati Militari Italiani. Una definizione che, nella sostanza, negava loro qualsiasi tutela internazionale.
Una resistenza senz’armi
I lager divennero luoghi di sofferenza estrema. Gli IMI furono costretti a lavorare in condizioni disumane: turni massacranti, cibo scarso, freddo, malattie, sovraffollamento. Circa 45.000 di loro morirono nei campi. Eppure, anche in queste condizioni, molti trovarono il modo di resistere: sabotaggi, rallentamenti intenzionali, forme di opposizione silenziosa e determinata. Una resistenza senza armi, ma non per questo meno eroica.
Nel 1944, lo status degli IMI cambiò formalmente: da “internati militari” a “lavoratori civili”. Un cambiamento solo sulla carta, che non migliorò affatto la loro condizione. Mussolini e la RSI cercarono di sfruttare propagandisticamente questa novità, spacciandola per una soluzione del “problema IMI” nella speranza di recuperare consenso.
Ma il rifiuto di collaborare con la RSI e con la Wehrmacht ebbe un effetto importante anche sul fronte interno. L’esempio degli internati contribuì alla delegittimazione del regime di Salò. Molti giovani richiamati alle armi preferirono disertare, unirsi alla Resistenza o darsi alla macchia, ispirati proprio dalla scelta dei soldati deportati.
Il rientro in Italia e la memoria nel dopoguerra
Con la fine della guerra e la liberazione dei campi, il calvario per molti IMI non terminò subito. Alcuni continuarono a lavorare forzatamente in Francia o in Unione Sovietica per mesi. Al ritorno in patria, trovarono un Paese che non li aspettava. Nessun riconoscimento, nessuna accoglienza: su di loro gravava lo stigma di aver “collaborato”, solo perché avevano lavorato nei lager – spesso sotto minaccia e in condizioni di schiavitù. La narrazione pubblica li ridusse a vittime passive, silenziandone il coraggio.
Solo a partire dagli anni ’70 e ’80, grazie al lavoro delle associazioni di reduci e alla storiografia più attenta, la memoria degli IMI ha iniziato a emergere con maggiore chiarezza. L’ANEI (Associazione Nazionale Ex Internati) e l’ANRP (Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia) hanno svolto un ruolo fondamentale nel restituire voce a questi uomini dimenticati. Oggi, il loro sacrificio è ricordato attraverso memoriali, pubblicazioni e testimonianze, anche se la loro vicenda rimane meno conosciuta rispetto ad altre forme di opposizione al nazifascismo.
Eppure, la storia degli IMI è una pagina di resistenza morale e patriottica che merita un posto centrale nella memoria collettiva del nostro Paese. È la storia di chi disse no, senza fucile, pagando quel no con la fame, il gelo, la prigionia e, troppo spesso, la vita.
Quattro storie di resistenza e silenzio: gli IMI della nostra terra
Nel corso di una ricerca dedicata agli Internati Militari Italiani di Guidonia Montecelio — che sarà pubblicata nel volume Guidonia Montecelio 1940-1945. Documenti e memorie della guerra, della prigionia e dell’internamento — chi scrive ha potuto ricostruire alcune delle vicende più drammatiche di quel periodo. Durante il lavoro, sono emerse anche le storie di quattro militari originari di Tivoli, San Gregorio da Sassola e Vallinfreda: territori non compresi nel perimetro della ricerca per ragioni geografiche, ma le cui vicende meritano comunque di essere ricordate.
Il caporale Stefano Catenacci, nato a Tivoli il 26 dicembre 1913 da Pietro Catenacci e Annunziata Gabelli, venne chiamato alle armi per la prima volta nel 1934. Con lo scoppio della guerra, nel settembre 1940 fu richiamato in servizio nel Reggimento “Genova” di cavalleria. Nel maggio 1943 fu inviato in Grecia e, pochi giorni dopo l’armistizio dell’8 settembre, venne catturato dai tedeschi. Morì in prigionia il 19 marzo 1945, in un campo di concentramento in Germania, a poche settimane dalla fine del conflitto.
Anche Ornello Bernardini, nato a Tivoli il 5 maggio 1924 da Lorenzo Bernardini e Italia De Santis, fu travolto dagli eventi. Di professione tornitore meccanico, fu chiamato alle armi nell’agosto del 1943 e assegnato al 46° Reggimento di artiglieria. Dopo l’armistizio, fu catturato e deportato in Germania. Ammalatosi gravemente, riuscì a tornare in Italia nel marzo del 1945, ma morì poco dopo, il 13 aprile, all’ospedale militare di Milano.
La terza vicenda è quella del caporal maggiore Orlando Saccucci, nato a Vallinfreda il 1° maggio 1922 da Giuseppe Saccucci e Agata Saccucci. Impiegato prima del conflitto, fu arruolato nel 1941 e destinato al 3° Reggimento di fanteria. Anche lui fu catturato dopo l’8 settembre e deportato in Germania, dove perse la vita il 22 dicembre 1944.
Infine, la storia di Gregorio Proietti, che ci è stata raccontata dal nipote Paolo. Nato a San Gregorio da Sassola nel 1914, Gregorio fu arruolato nel 151° Reggimento di artiglieria. Al momento dell’armistizio si trovava in licenza e fu arrestato dai tedeschi proprio a Tivoli. Deportato a Darmstadt, fu costretto a lavorare in condizioni disumane, in violazione di ogni norma internazionale. Il 17 dicembre 1944 cadde da una scala mentre lavorava, battendo violentemente la testa. Morì lo stesso giorno, intorno alle 16:00. Oggi riposa nel Cimitero militare di Francoforte sul Meno, insieme ad altri 4.787 italiani — per la maggior parte Internati Militari — deceduti durante la prigionia.
Queste quattro storie, rimaste ai margini della narrazione ufficiale, raccontano con semplicità e dolore cosa significò davvero dire “no” alla collaborazione con i nazifascisti. Un no che costò la libertà, la salute e, troppo spesso, la vita. Ma che oggi possiamo finalmente riconoscere come un atto di resistenza. Ricordare queste persone non è solo un dovere storico.
È un atto di giustizia.