Un anno ''ruggente'' di anniversari letterari e romanzi ritrovati
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Un anno ''ruggente'' di anniversari letterari e romanzi ritrovati

Ricorrenze di nascite, scomparse e creazione di importanti opere: da Shakespeare a Goethe; da Wilde a Hemingway. E anche perché consiglio di rilegger Jack Kerouac.

Un anno ''ruggente'' di anniversari letterari e romanzi ritrovati
In foto lo scrittore Jack Kerouac, auore del romanzo autobiografico ''Sulla strada''
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10 Gennaio 2024 - 09.51 Culture


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di Margherita Degani

Una serie di imperdibili appuntamenti ci attende durante questo lungo ed estremamente ricco percorso letterario, alla scoperta dei più significativi anniversari legati ai grandi autori. Sono infatti trascorsi 430 anni dalla nascita di William Shakespeare, 275 da quella dello scrittore tedesco Johann Wolfgang von Goethe, 205 dall’arrivo qui tra noi di  Herman Melville e 170 da quello del più celebre tra gli edonisti, Oscar Wilde.

Ma, ancora, 165 anni dalla nascita di Arthur Conan Doyle – che diede ampio contributo ai generi del giallo e del fantastico – e 150 da quella di Gertrude Stein – scrittrice, poetessa, drammaturga e collezionista d’arte americana che, grazie alla sua attività, diede un impulso rilevante allo sviluppo del Modernismo.

Aldous Huxley, famoso per il suo romanzo fantascientifico, venne alla luce 130 anni fa, Ernest Hemingway 125 ed, infine, l’eccentrico Truman Capote festeggerebbe il suo centenario con un’altra festa destinata a segnare la storia.

Accanto a tutte queste fortunate nascite, però, vale la pena celebrare anche le date di significative scomparse che, pur nel compianto, hanno lasciato tanta bellezza al mondo. 175 anni fa moriva infatti Anne Bronte – sorella minore, delle due più celebri scrittrici – e, così, 130 anni fa Robert Louis Stevenson. Ne sono poi trascorsi esattamente 100 dalla scomparsa di Franz Kafka e Joseph Conrad, due nomi che non hanno bisogno di descrizioni. 80 anni dalla morte di Antoine de Saint-Exupéry, il leggendario pilota poeta  e 70 da quella di Colette, una delle grandi protagoniste della sua epoca, un mito nazionale che seppe stupire, precorrere e sconvolgere il pubblico.

Jack Kerouac ci ha lasciato 55 anni fa e soli 5 anni dopo è stata la volta dello scrittore e poeta italiano Aldo Palazzeschi, uno dei padri delle avanguardie storiche.  Dopo tuttai loro, come scordarci di Charles Bukowski, mancato 30 anni fa e del decennio già trascorso dalla morte di Gabriel García Márquez e del suo mondo avvolto nel realismo magico?

Tutti questi colossi meritano un giusto e consigliato approfondimento, ma, dovendone individuare uno da consigliare come una sorta di guida per questo nuovo anno, scelgo Jack Kerouac. Uno degli scrittori più sottovalutati ed ingabbiati in uno stereotipo semplicistico, che parla di città e serate nei club, di viaggi alla ricerca della conquista di sé e di incontri, di famiglia, amori, di scrittori che cercano fortuna e percorsi di crescita.

Scrive della vita e della morte, di una profonda devozione nata dalla fusione tra Cattolicesmo e Buddhismoe, della tristezza che sottende ogni cammino umano sulla terra e della sua infanzia a Lowell.

I suoi personaggi, spesso eccentrici e impegnati a vivere il margine della società, non di rado si ispirano ad amici reali dell’autore o a persone incontrate, creando immagini indelebili e poetiche.

Kerouac ha di fatti plasmato l’immaginario che noi tutti abbiamo dell’America di quegli incredibili anni 60’-70’. La sua energia vitale, la spontaneità di una scrittura tradottasi in vita stessa, il flusso di coscienza e la libertà mentale con cui si apre al pubblico sono ciò che -come disse Fernanda Pivano, prima traduttrice di Kerouac in Italia- cambiò un’intera generazione. Si impongono così i concetti di vivere alla giornata, di viaggio alla buona, di autostop e zaino in spalla. Perché proporre questo tipo di esperienza, potremmo chiederci. Non per una filosofia del risparmio, come molti hanno sostenuto, ma per il puro desiderio di conoscere persone, di entrare in contatto con loro; per il desiderio di comunicare e amare, perfino degli eventuali sconosciuti.

Jack Kerouac era un uomo dalla grande fame di avventura, dall’infinito desiderio nei confronti di qualcosa che gli sfuggiva e verso la tenerezza, la dolcezza, la verità dentro alla solitudine, la condivisione universale dell’essere umani al mondo.

Ferlinghetti, editore e poeta, disse di lui in un’intervista che non desiderava affatto la fama nata da On the Road; con quella iniziò a sentirsi perduto ed era un’emozione che odiava, probabilmente la stessa che lo ha condotto all’alcolismo e alla morte prematura. “Non gli interessava della televisione e della sacralità o ufficialità di certe occasioni”, secondo Allen Ginsberg, “…era sempre sé stesso al 100%”.

Com’è inevitabile anche la veste linguistica e lessicale ricalca una certa libertà, attraverso una prosa spontanea e continua che mima proprio l’irrefrenabile movimento del desiderio: scarsa punteggiatura, frasi che mozzano il fiato, commistioni con lo slang e dimensioni alternative a quella della scrittura, una lingua polisemica, accostamenti di immagini ed emozioni, prima ancora di vere e proprie descrizioni consequenziali.

Sembra persino che abbia scritto il suo capolavoro in tre sole settimane, incapace di abbandonare la battitura al punto da sostituire i singoli fogli con un rullo di carta, più adatto al suo flusso.

Si definiva poeta jazz, a causa del suo accostamento al ritmo bebop, uno stile jazz degli anni 40, caratterizzato da elaborazioni armoniche e musicali innovative, contrapposte alla musica coeva. Un po’ come la Beat Generation si faceva portavoce di un cambiamento sociale.

E’ il 1944 quando Kerouac incontra Burroughs e Ginsberg, ponendo le basi del nucleo iniziale di questo grande movimento, destinato ad imprimersi nella memoria. Impiega per la prima volta il termine beat nel 1950, all’interno del suo primo romanzo pubblicato, parola da lui stesso ideata in un attimo di mistica illuminazione:

Sono uno strano, solitario, pazzo, mistico cattolico” e “ fu da cattolico che un pomeriggio andai nella chiesa della mia infanzia ( una delle tante) e ad un tratto, con le lacrime agli occhi, quando udii il sacro silenzio della chiesa, ebbi la visione di che cosa avevo voluto dire veramente con la parola Beat, la visione che la parola Beat significava Beato”

Rifiutò sempre l’ideologia politica e le etichette, accanto alle riduzioni che gli vennero attribuite in seguito. Non scriveva per questo, ma per una visione tematica e formale completamente nuova, convinto com’era che l’eventuale shock del lettore di fronte alla lingua non bloccasse le abilità telepatiche e di corrispondenza necessarie ad intuire gli stessi significati. Nasce in questo modo la grande leggenda di Jack Duluoz, alter ego dello scrittore, di cui ogni libro potrebbe essere un capitolo.

Qui iniziano e terminano irrequietezza, fame e sogno di uno scrittore che è riuscito a fondere elemento letterario ed esperienza personale, a catturare la sua passione e farsi, senza volerlo, Vate di un’epoca e di una società in movimento.

In quest’epoca di aridità, pandemie, paure e pessimismo, è opportuno regalarsi una nuova emozione di vita, da scovare proprio tra le righe dei deliri quasi onirici di un pazzo americano.

“Nei frutteti dalle foglie fruscianti, nell’ondeggiare del granoturco, nella notte che diffonde il dolce fruscio di mille foglie, notte di sospiri, di canzoni e sussurri. Mille cose su e giù per la via, profonde, graziose, pericolose, che respirano, pulsano come stelle.”

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