di Francesco Agosti
Sono passati più di cento anni da quando Antonio Gramsci scrisse che “l’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera”. Quelle parole, che sarebbero diventate un ulteriore monito e stimolo per la resistenza partigiana, sono rinnegate oggi da una comunità che appare intrisa di quel virus dell’indifferenza che “opera passivamente”. Un intorpidimento generale che permette a certi fenomeni di apparire come usuali, parte integrante di una società, quella odierna, che fa sempre più fatica ad indignarsi. Sono lontani i tempi in cui certe manifestazioni, riti, simboli, parole e comportamenti tipici del periodo fascista potevano avvenire solo nel chiuso di qualche scantinato, perché era insito che fuori di lì sarebbero stati denunciati, emarginati, stigmatizzati dalla collettività.
C’era un’Italia, insomma, in cui era ben delineata la differenza tra libertà di espressione e limite minimo della decenza umana, mentre oggi assistiamo alla normalizzazione di certi episodi, come fossero elementi integranti da sempre la vita civile, che invece rappresentano gli antipodi di ogni comunità che si possa dire democratica.
Problema nazionale, fenomeni locali
Il problema è certamente nazionale, ma anche locale. E, come spesso accade, a Guidonia Montecelio trova concretizzazione quello che è un sentimento generalizzato. È da anni, infatti, che la comunità guidoniana è costretta ad assistere a piccole manifestazioni o a singoli atti che richiamano quelli del Ventennio fascista.
Appena tre anni fa i muri cittadini furono tappezzati, nottetempo, di manifesti che inneggiavano alla diffusione della “luce” (con chiaro riferimento alla frase di regime “dux mea lux”) per combattere l’oscurità. Firmato: “I camerati”.
Così come è avvenuta l’affissione abusiva di striscioni celebranti San Marco in occasione del 25 aprile, da cui emerge il lampante rifiuto della Storia repubblicana e costituzionale italiana.
Al netto di questi sparuti episodi, capaci però di inquinare l’essenza democratica e antifascista della nostra Città, c’è un’altra situazione allarmante che non va sottovalutata, ed è la presenza di raggruppamenti, più o meno organizzati, che utilizzano pose, riti, segni o emblemi che richiamano fuor di dubbio la simbologia fascista. L’uso indiscriminato dell’unico colore consentito, quello nero. L’utilizzo della “V” al posto della lettera “U”, rievocante le scritte di epoca fascista. L’obbligo di tenere nelle fotografie una postura eretta, il petto in fuori, le gambe divaricate e le braccia incrociate (circa questo punto, alcuni anni fa è stato pubblicato un interessante studio riguardante la comunicazione non verbale di Hitler e Mussolini, ed è emerso che proprio quest’ultimo accompagnava l’oratoria con il linguaggio del corpo, utilizzando esattamente quel posizionamento descritto per trasmettere sicurezza e senso di potere). Ed ancora, eventi che hanno visto la partecipazione di band musicali di estrema destra, le cui canzoni richiamano ai “fasti” del Ventennio o promuovono l’esaltazione di figure apicali del regime mussoliniano.
SS e folklore
Quando si credeva che lo scempio fosse arrivato al proprio apice, ecco che l’asticella della vergogna è stata spostata ancor oltre: non è, difatti, passata inosservata una scritta esposta pubblicamente in cui le lettere “S” erano state modificate e stilizzate richiamando inequivocabilmente il simbolo delle “SS” naziste. Davanti ad una simile ignominia ci si aspetterebbe un sollevamento di massa, e invece tutto è passato in sordina, come se fosse normale accettare simili gesti di esaltazione in un circuito democratico come quello in cui viviamo.
D’altronde, anche quest’anno abbiamo dovuto assistere al rito del saluto romano che faceva seguito al grido di “presente” in occasione del raduno di militanti di estrema destra in Via Acca Larentia, nel quartiere Tuscolano. Ciò che risulta assordante è il silenzio di buona parte della politica, delle Istituzioni, della società civile e dell’intellighenzia di questo Paese, come se fosse normale, al limite del folklorismo, una manifestazione che prevede anche (o soprattutto) finalità di propaganda di riti identitari che riportano a periodi poco felici della storia italiana. Quelle braccia tese sembrano voler dire, rivolgendosi ai Padri costituenti, alla Costituzione e ai principi democratici, non solo che loro sono ancora qui, ma che, con i fantasmi della peggior destra che aleggiano in Europa e nel mondo, ciò che prima era celato ora può tornare ad essere compiuto in pubblico, forte della legittimità offertagli dai detentori del Potere, che proprio non riescono a dirsi antifascisti, ma anzi rivendicano spudoratamente le loro origini ideologiche repubblichine.
L’apparente ordinarietà dell’esaltazione dei riti e simboli fascisti è stata frutto di un lento, ma metodico, ammorbidimento dell’intransigenza antifascista, con conseguente e continuo ampliamento del limite della soglia di tollerabilità. Bene ha fatto il Professor Tomaso Montanari a ricordare le parole della scrittrice Edith Bruck, secondo la quale “c’è troppa tolleranza verso i fascisti”. Quello che una volta era considerato integrante l’apologia del fascismo e su cui vi era massima fermezza, è diventato, a piccoli step, prima un comportamento riprovevole, poi malvisto, in seguito goliardico ed infine, oggi, sembra esser diventato consueto, senza suscitare il minimo scalpore. Evidentemente c’è stato un abbassamento della guardia se è stato permesso che un atteggiamento criminale possa essere stato ricondotto su un piano morale, diventando, perciò, opinabile. È quello il momento in cui è venuta meno l’intransigenza generale verso gli inputs che il neofascismo, il vero pericolo per la nostra Costituzione, rilascia pian piano nella società democratica.
Ed allora tornano di nuovo utili le parole di Gramsci: “ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà”.
È necessario un risveglio delle coscienze ed un maggior coraggio da parte di tutti nel denunciare pubblicamente simili episodi e non trattarli con leggerezza, alla stregua di “ragazzate”, per far si che non si normalizzino certe turpitudini e per evitare un ulteriore decadimento morale e sociale.
Post Scriptum: quanto manca alla nostra Città una voce libera come Tommaso Verga. A lui, che ha sempre raccontato i fatti e che si è sempre schierato in occasioni di ingiustizie o malefatte, non rimanendo mai indifferente, è dedicato questo scritto.