Iran, in memoria di Samira Sabzian la sposa bambina impiccata dal boia di stato
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Iran, in memoria di Samira Sabzian la sposa bambina impiccata dal boia di stato

Il boia al servizio di un regime teocratico, misogino, che continua ad arrestare, reprimere, uccidere nelle piazze, impiccare le donne che rivendicano i propri diritti. Samira Sabzian

Iran, in memoria di Samira Sabzian la sposa bambina impiccata dal boia di stato
Samira Sabzian
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Umberto De Giovannangeli Modifica articolo

20 Dicembre 2023 - 21.52 Globalist.it


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Il boia di stato è entrato in azione all’alba. Il boia al servizio di un regime teocratico, misogino, che continua ad arrestare, reprimere, uccidere nelle piazze, impiccare le donne che rivendicano i propri diritti. Donne che si ribellano a mariti imposti loro, violenti, impuniti.

La sposa bambina

Samira Sabzian, ex sposa bambina condannata in Iran alla pena capitale per avere ucciso suo marito, è stata impiccata all’alba. Lo ha denunciato la Ong, con sede in Norvegia, Iran Human Rights. La donna si era sposata quando aveva 15 anni e quattro anni dopo, nel 2013, aveva ucciso suo marito. Da allora si trovava in carcere. Durante il matrimonio era stata anche vittima di violenza domestica. Finora quest’anno, sempre secondo Iran Human Rights, sono state giustiziate 18 donne in Iran. 

Secondo fonti di Iran Human Rights, Samira è stata giustiziata nel carcere di Qeezel Hesar a Karaj. L’esecuzione era inizialmente prevista per mercoledì 13 dicembre, ma è stata rinviata di una settimana anche sull’onda della reazione da parte della società civile. Secondo quanto riferisce l’Ong, la donna aveva due figli di 10 e 17 anni. La scorsa settimana, prima dell’esecuzione in programma, la donna ha potuto incontrarli per la prima volta da quando è stata incarcerata.”per un’ultima visita prima della pena di morte”, si legge nel sito dell’Ong. Secondo il codice penale della Repubblica islamica, coloro che sono accusati di omicidio vengono condannati a morte, a prescindere dalle circostanze in cui il fatto è avvenuto. La famiglia della vittima può scegliere se accettare la pena capitale o chiedere un compenso finanziario. Nel caso di Sabzian, i genitori del marito ucciso avevano chiesto che la pena di morte fosse eseguita.

“Vittima per anni dell’apartheid di genere, dei matrimoni precoci e della violenza domestica, Samira oggi è stata vittima della macchina omicida di un regime incompetente e corrotto, un regime che si è sostenuto esclusivamente uccidendo e instillando paura”, ha scritto su X il direttore dell’ong, Mahmood Amiry-Moghaddam.

Secondo il direttore “Ali Khamenei e gli altri leader della Repubblica Islamica devono essere ritenuti responsabili di questo crimine. Come altre vittime della ‘macchina della morte’ del regime, Samira era tra i membri più vulnerabili di una società senza voce”. Amiry-Moghaddam ha poi sottolineato che “una campagna di una settimana non è stata sufficiente per salvarla. Dobbiamo lottare ogni giorno per salvare le migliaia di altre persone che rischiano di diventare vittime della macchina omicida per preservare la sopravvivenza del regime”. Sempre su X Mozhgan Keshavarz, attivista iraniana che è stata compagna di cella di Samira e che ha trascorso quasi tre anni dietro le sbarre, ha scritto che “Samira è stata vittima della pratica dei matrimoni precoci e ho visto quanto ha sofferto in carcere per il fatto che le è stato negato l’accesso ai suoi figli”.

“Samira Sabzian, come temevamo, è stata messa a morte questa mattina in Iran appena dopo la preghiera dell’alba”, ha dichiarato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “La sposa bambina che otto anni fa aveva ucciso il marito violento è la diciottesima donna messa a morte quest’anno in Iran su un totale di ormai 800 impiccagioni – ha spiegato il portavoce -. Le leggi iraniane consentono matrimoni forzati e precoci dall’età di 13 anni per le bambine, non proteggono le donne dalla violenza domestica e poi le ammazzano quando si ribellano”.

Nessuno al mondo giustizia tante donne quante l’Iran. Nel 2022 sono state giustiziate almeno 16 donne. Secondo IHR, Samira è la 18esima donna ad essere giustiziata nel 2023. Secondo un’altra Ong, women.ncr-iran.org, Samira Sabzian Fard è la 21esima donna a essere giustiziata nel 2023 dal regime clericale.
IHR conta almeno 164 donne giustiziate tra il 2010 e il 2021, mentre women.ncr-iran.org con un conteggio più completo stima che almeno 224 donne siano state giustiziate in Iran dal 2007 ad oggi.
Secondo il rapporto di Iran Human Rights su “Donne e pena di morte in Iran” in occasione della Giornata mondiale contro la pena di morte, nel 66% dei casi di omicidio noti, le donne sono state condannate per aver ucciso il marito o il partner. All’interno del matrimonio, una donna non ha il diritto di divorziare, nemmeno in caso di violenza domestica e abusi, che sono nascosti nei codici culturali e nel linguaggio.

Di nuovo sotto processo

Scrive Antonella Alba per RaiNews: “L’attivista iraniana premio Nobel della Pace Narges Mohammadi di nuovo a processo. Il primo dopo il riconoscimento ricevuto a ottobre scorso, si terrà martedì prossimo. 

Lo fa sapere il marito e attivista Taghi Rahmani, , in esilio a Parigi, riferendo che il 10 dicembre, giorno dell’assegnazione del prestigioso premio – ritirato dai due figli gemelli  dell’attivista iraniana – la moglie è stata convocata nel reparto femminile del carcere di Evin a Teheran e tramite una notifica, è stata informata che il suo processo si sarebbe svolto alle 10 del mattino (ora locale) del 19 dicembre presso la sezione 26 del tribunale rivoluzionario. Quel giorno l’attivista aveva deciso di restare in sciopero della fame, per protesta contro le autorità che le negano cure e giustizia. 

In una notifica del tribunale di sicurezza del distretto 33, è stato inoltre annunciato che, su richiesta del ministero dell’Intelligence e per motivi politici e di sicurezza, l’esecuzione della eventuale condanna avrà luogo fuori Teheran.

Si ipotizza che le autorità intendano trasferirla in un altro carcere lontano dalla capitale visto che da Evin non  solo riesce a far uscire i suoi messaggi ma ha anche trovato la solidarietà di altre detenute con cui ha organizzato diverse azioni di protesta. Nessuna prigione rinchiuderà mai la mia voce ha detto ieri in un’ intervista al Corriere della Sera avvenuta grazie a uno scambio di email.

Mohammadi entra ed esce dalle carceri iraniane da almeno 20 anni. Si tratta delterzo processo contro di lei in un tribunale rivoluzionario, a causa delle sue recenti attività in carcere. I processi penali in questi tipi di tribunali spesso si svolgono a porte chiuse, presieduti da religiosi, senza nessuna delle garanzie standard della procedura penale, come concedere tempo e accesso agli avvocati per preparare una difesa. 

Nei due casi precedenti, Mohammadi era stata condannata a 27 mesi di carcere e 4 mesi di lavori di pulizie. Oltre che dei processi a suo carico, il 29 novembre le autorità penitenziarie l’hanno informata della cessazione della possibilità di fare telefonate e di ricevere visite”. 

Il silenzio dell’Occidente

Scriveva Antonella Mariani su Avvenire: «Non piangete sulla mia tomba, non leggete il Corano. Mettete una canzone allegra». Sono ormai storia le ultime parole di Majidreza Rahnavard, ucciso il 12 dicembre 2022 per aver preso parte alle manifestazioni seguite alla morte in detenzione di Mahsa Amini. Difficile eseguire le sue volontà, nell’Iran della repressione totale, a meno di affrontare tutti i rischi che la disobbedienza comporta. La tragica fine del 23enne Majidreza, impiccato al braccio di una gru nella piazza principale della cittadina di Mashhad, ci ricorda che non sono solo le ragazze a morire e a soffrire, ma anche i ragazzi che si sono messi al loro fianco per la stessa battaglia di civiltà. 

È la “meglio gioventù” iraniana, come l’ha definita un recente report di Amnesty, a urlare “Donna, vita, libertà” ormai da 12 mesi. Nell’anno trascorso dalla morte di Mahsa abbiamo assistito a manifestazioni quasi quotidiane, sedate dagli agenti della repressione. Abbiamo visto esplodere e poi pian piano sfiorire campagne social diffuse in tutto il pianeta come il taglio di una ciocca davanti alle videocamere (erano stati proprio i capelli fuori posto a scatenare la violenza contro la giovane curda). Abbiamo letto report allarmati sulle migliaia di arresti arbitrari, sulle esecuzioni pubbliche, sulle violenze inflitte in carcere ai manifestanti, uomini e donne… L’opinione pubblica mondiale non ha dimenticato le ragazze e i ragazzi iraniani, non c’è stato un blackout informativo come è accaduto invece per le afghane, che da due anni sono state cancellate dalla scena pubblica nel loro Paese e le loro sofferenze, salvo rare eccezioni tra le quali Avvenire, hanno avuto scarsissima eco. 

Eppure. Eppure l’indignazione pubblica e la mobilitazione dei movimenti sociali e politici, pur assolutamente indispensabili per tenere accesa una luce sul dramma di un popolo, non è stata sufficiente. L’unico risultato raggiunto dal clamore mediatico, nel dicembre scorso, è la sospensione del seggio della Repubblica islamica dell’Iran nella Commissione delle Nazioni Unite sullo status delle donne. Un risultato magro, quasi un contentino, e casomai ci sarebbe da chiedersi cosa ci facesse uno Stato nemico delle donne in una Commissione di tal fatta, se non fosse che a tutt’oggi l’Afghanistan ne è ancora membro.

Dunque, il sostegno che è mancato e manca, nella battaglia del popolo iraniano, è la volontà dei governi occidentali di far valere i cardini condivisi della nostra civiltà: l’uguaglianza e la pari dignità tra cittadini, la libertà di pensiero e di espressione, la giustizia… Valori alla base del vivere civile in casa nostra, però facoltativi laddove porta non il cuore bensì gli affari. Perché sostanzialmente è così; business as usual. Lo ha spiegato bene l’attivista iraniana Maryam Namazie nei giorni scorsi in un’intervista a Micromega:  «Il business as usual è sempre contro le donne e a favore del profitto rispetto al benessere umano». 

È sul cinismo dei governi occidentali – lo stesso che pesa come un macigno sulla storia recente, sul presente e ormai anche sul futuro del popolo afghano – che gli ayatollah di Teheran contano, vista la protervia con la quale da una parte sopportano entro certi limiti le proteste di piazza e dall’altra continuano a perseguitare le ragazze e i ragazzi.

Allora l’unica speranza che la morte di Mahsa Amini e degli altri, la sofferenza degli innumerevoli oppressi in prigione, picchiati e perseguitati, porti a un cambiamento nel granitico regime iraniano, risiede nel coraggio e nella tenacia di chi lotta, nella possibilità che emerga una leadership, nella resistenza e nel sacrificio, anche di sangue, della “meglio gioventù” di un intero Paese.

Sulla carta il regime è condannato dai numeri: il cambiamento è lento, ma appare inevitabile. Oggi i giovani costituiscono il 70 per cento della popolazione. Le ragazze sono il 60% delle matricole universitarie, il 70% nelle facoltà scientifiche. Per quanto tempo gli ayatollah ancora potranno arginare la protesta di una parte così consistente – donne e uomini, insieme – della propria gente? Il prezzo da pagare, lo vediamo, è altissimo. Per i Paesi occidentali è il prezzo della vergogna”.

In memoria di Samira Sabzian,

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