Chi si ricorda del Covid e dell’insegnamento che avrebbe dovuto lasciarci?
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Chi si ricorda del Covid e dell’insegnamento che avrebbe dovuto lasciarci?

Dopo quattro anni, che Wuhan e l’interminabile corteo di bare sui camion militari che attraversava Bergamo ci fecero realizzare la pesantezza della pandemia, poco resta nella nostra memoria e nelle nostre abitudini igieniche che avevamo abbracciato.

Chi si ricorda del Covid e dell’insegnamento che avrebbe dovuto lasciarci?
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Agostino Forgione Modifica articolo

27 Marzo 2024 - 12.57 Culture


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Quattro anni. Sono passati solo quattro anni dalle note immagini del marzo 2020, quelle in cui un interminabile corteo di camion dell’esercito attraversava le strade di Bergamo. Il Covid, a quei tempi, era probabilmente l’assillo quotidiano di chiunque.

Forse, per la prima volta nel corso del XXI secolo, abbiamo ricordato di essere tutti sotto lo stesso cielo, a prescindere dalla latitudine e dalla propria estrazione socioculturale. I più romantici hanno prospettato la nascita di una nuova era, scorgendo nella pandemia un’occasione per stringere una sorta di nuovo ordine globale imperniato sulla fratellanza e sulla consapevolezza di essere “tutti sulla stessa barca”.

Un epilogo alla “The day after Tomorrow” indubbiamente affascinante, nel quale probabilmente qualcuno ha creduto veramente. La cronaca, tuttavia, ci dimostra brutalmente che non è andata così.

Non solo la consapevolezza del rapporto con gli altri, ma l’esperienza del Covid ha anche profondamente mutato la nostra quotidianità. Tralasciando gli atteggiamenti più malsani e parossistici, probabilmente il grande merito di quel periodo è stato il migliorare le nostre pratiche igienico-sanitarie.

Lungi dall’elogiare ogni isterismo come il culto dei disinfettanti, consumati spropositatamente a ettolitri, o l’uso della mascherina anche in montagna, al parco o da soli in macchina, le nostre pratiche igieniche sono sicuramente fiorite.

Abbiamo capito quanto fosse inutile stringere mani a destra e a manca, dispensare baci e abbracci a chiunque, stare appiccicati gli uni agli altri. In altre parole, sembrava avessimo raggiunto la saggia consapevolezza che, alle volte, fiondarsi sulle guance di qualcuno appena conosciuto non necessariamente è un bel gesto d’affetto.

Cosa dire poi di quella nuvola di goccioline di saliva emesse dalla bocca quando si parla, si starnutisce o si tossisce, della la cui grandezza, traiettoria e gittata eravamo diventati esperti calcolatori di gittata e traiettoria? Per questi nacque una nuova parola registrata dalla Crusca: droplet.

E, dunque, eccoci di nuovo dove eravamo prima che Wuhan diventasse una provincia cinese nota in tutto il globo, quasi indifferenti di quello che è stato. Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto. Chi ha rato, ha rato, ha rato, per citare la canzone napoletana. Peccato che nel bilancio del “dimenticato e da dimenticare” siano annoverate anche le centinaia di migliaia di vittime – solo italiane – morte, purtroppo, invano.

Ci pensavo proprio qualche giorno fa, quando un mio collega universitario, qualche minuto dopo aver starnutito nel palmo della amano, calorosamente me l’ha porta per congedarsi. A nulla sono serviti i bollettini quotidiani, le immagini dei reparti di terapia intensiva soprassaturi, quelle delle centinaia di bare in attesa di essere cremate. Neppure tutto ciò è bastato affinché il caro studente, imparasse che non è carino dare la mano a qualcuno dopo averci starnutito dentro.

Non si tratta di volersi scrollare di dosso la sofferenza e il dolore di ciò che è stato. Non bisogna mistificare. Si tratta di cecità. Quella di chi vive cullato dalla rassicurazione dello strettamente quotidiano e non vuole gravarsi del peso di una visione prospettica, anche estesa solo di qualche anno addietro. Tutto ciò sebbene i morti da covid esistano ancora, ma, forse, poco importa che – fortunatamente – siano una piccola frazione rispetto a qualche anno fa.

Cosa dimostra tutto ciò? Probabilmente che siamo ostinati a non cambiare le nostre abitudini. Anche quando bisognerebbe necessariamente farlo. Un discorso che può essere perfettamente esteso a tanti, troppi, ambiti diversi. Che si tratti di cambiare i nostri stili di consumo alimentare e via dicendo, rimaniamo sempre troppo attaccati alle nostre sedimentate abitudini. Che gli esperti o l’esperienza ci dicano bisogni virare altrove è irrilevante.

Fin quando il mare è più o meno quieto, siamo spesso accidiosi nel cambiare la rotta che di lì a poco ci condurrà nella tempesta.

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