Guardate Horizon e capirete Trump
Top

Guardate Horizon e capirete Trump

L’imprinting originario di una nazione nata dallo spirito di avventura dei coloni. La tradizione populista negli Stati Uniti che affonda le sue radici negli ultimi decenni dell’Ottocento. Da dove dovrebbe ripartire il Partito Democratico.

Guardate Horizon e capirete Trump
Preroll

redazione Modifica articolo

11 Marzo 2025 - 15.30 Culture


ATF

di Marcello Flores e Giovanni Gozzini

Per capire Trump bisogna guardare Horizon, l’ultimo film di Kevin Costner. Non perché sia gran cosa: tende a scimmiottare le serie TV e quindi affastella troppe vicende in parallelo contando sul torpore dello spettatore. Ma anche così, rappresenta una buona sintesi di quel che la letteratura storiografica chiama republicanism: l’imprinting originario di una nazione nata dallo spirito di avventura dei coloni che con le loro famiglie partono alla conquista del West, pronti a incarnare in se stessi l’unica istituzione di cui hanno bisogno, a domare la natura costruendo la propria casa con gli alberi che abbattono, ad eliminare ad ogni costo i nativi (quelli che noi continuiamo a chiamare «indiani» perpetuando l’errore di Cristoforo Colombo), a schiavizzare i neri deportati dall’Africa e comprati al mercato.

Un libro uscito nel 2017 (Colin G. Calloway, The Indian World of George Washington, Oxford University Press) racconta le ire del primo presidente degli Stati Uniti, George Washington, contro i suoi connazionali che violano i trattati di pace siglati con le tribù indiane – fedeltà in cambio delle terre oltre i monti Appalachi – costringendo l’esercito a difenderli e obbligando tutti a una lunga e sanguinosa guerra. Ogni assonanza con quanto accade oggi in Medio Oriente potrebbe non essere casuale. 

Non si capisce l’ostinazione a tenere armi in casa se si ignora questo imprinting. Quello che per noi è sinonimo di caos senza legge (il Far West) oltre Atlantico diventa il mito di chi conta solo sulle proprie forze. Subito dopo l’undici settembre nei luoghi nevralgici del centro di New York fiorirono pareti di foglietti con su scritto MISSING e nome e foto dei dispersi nel crollo delle Twin Towers, appuntati lì dai familiari. In Europa se succede un disastro si chiamano ospedali e polizia (le istituzioni, appunto). In America si fa da sé. A partire dal 2010 prima il Tea Party (riferimento alla lotta anticoloniale contro il dominio britannico) e poi Trump hanno riportato il partito repubblicano a questo racconto di fondazione.

Che è qualcosa di più e di diverso dal neoliberismo economico rappresentato da Reagan, che infatti rilanciava il ruolo internazionale degli Stati Uniti e rafforzava le proprie alleanze in Europa occidentale nel quadro della Guerra Fredda. Al contrario, Make America Great Again (MAGA, presuntuosa identificazione di se stessi con un continente che comprende anche canadesi, messicani, brasiliani, argentini …) significa un moto introverso che punta a ritrovare le energie individuali dei singoli cittadini contro il «Deep State» che li tiene prigionieri.

Nella gente che appartiene al ventre basso della provincia degli Stati Uniti – e oggi i distretti disegnati dalla legge elettorale avvantaggiano il voto rurale in ragione di 1:3 su quello urbano – questo messaggio funziona come un richiamo della foresta, che non solo legittima ma esalta la propria condizione di emarginazione e ignoranza. Il sostegno ai rivoltosi che assaltano il Campidoglio nel gennaio 2021 è un chiaro gesto eversivo, impensabile per ogni presidente da Lincoln in poi. Ma in tale contesto diventa la prova che Trump non appartiene allo stato, bensì al popolo del Far West che aborre gli intellettuali estenuati, snob e con la puzza sotto al naso di Manhattan.

Molti aspetti di entrambi i mandati di Trump sono stati fatti risalire alla tradizione populista che negli Stati Uniti affonda le sue radici negli ultimi decenni dell’Ottocento: lo stesso periodo in cui un altro ma ben diverso populismo – quello russo dei narodniki – metteva in crisi il potere zarista. Il populismo americano degli anni ’70-’90 dell’Ottocento deriva da una tradizione che Richard Hofstadter ha chiamato «radicalismo imprenditoriale», una mentalità diffusa anche nelle classi medie e popolari, fondata sulla contrapposizione tra il popolo considerato come fondamentalmente innocente e lavoratore, di contro a una minoranza egoista e corrotta rappresentata dal mondo finanziario delle banche e dalle sue propaggini politiche a Washington.

Anche se il culmine del ruolo politico del populismo si raggiunge negli anni ’90 (con una ripresa tra le due guerre mondiali, nei primi anni del New Deal da parte degli oppositori all’intervento statale federale patrocinato da Roosevelt), quella mentalità rimane, lasciando tracce profonde tanto nella destra che nella sinistra dello schieramento politico. Il popolo idealizzato aveva un carattere vago e astratto, le cui virtù erano di volta in volta indicate in quelle degli agricoltori, della classe operaia urbana, dei commercianti della piccola borghesia, considerati in blocco come antagonisti dei monopolisti, dei banchieri, dei leader dei partiti politici, cioè delle élite.

Un assunto fondamentale del populismo era che i meccanismi di una società di mercato fossero sufficienti per rimediare ai mali e alle ingiustizie, ma che il controllo del governo – a livello statale ma anche federale – avrebbe permesso di correggere il sistema bancario, creditizio e fiscale voluto dalle élite.

È chiaro che in questo empito populista le prime ad essere sacrificate sono le regole democratiche. Trump esclude la Associated Press dalle sue conferenze stampa perché rifiuta di cambiare in Golfo d’America il nome del Golfo del Messico, come da lui ordinato. Questa riedizione di Nerone (insieme ai propositi annessionistici nei confronti di Groenlandia, Panama, Canada) sarebbe solo ridicola se non si accompagnasse a un messaggio e a una minaccia. 

Il messaggio è: la Associated Press non conta niente. In una situazione che vede la maggioranza del popolo statunitense informarsi non più attraverso i giornali o la televisione, bensì attraverso social media che filtrano pregiudizialmente ogni opinione difforme. Il risultato è che l’elettorato si divide in compartimenti stagni che non comunicano più tra loro. Si chiude la democrazia come forum condiviso di opinioni differenti. E questo a Trump sta bene. Forse non solo a lui.

La minaccia (già abbondantemente messa in pratica) è: non ripeterò gli errori del 2016. Allora pensavo di essere arrivato alla Casa Bianca per miracolo ed ero ancora in soggezione davanti ai pezzi grossi della magistratura e delle forze armate. Adesso non più e sono determinato a mandare via tutti (a licenziare, come ha già fatto in tv) quelli che mi ostacolano.

Si chiude la democrazia come sistema di checks and balances, fondato cioè sulla separazione di poteri paritetici come da Montesquieu siamo abituati a pensarla e praticarla. Putin e Xi gli oppositori li eliminano per le vie spicce, Trump no. Ma probabilmente ammira nei suoi interlocutori «l’uomo forte», riconoscendolo come tratto comune. Per i più deboli come Zelensky non ha nemmeno rispetto. La minaccia funziona: la parata dei quattro «maghi» dell’economia statunitense (Bezos, Zuckerberg, Pichai, Musk) all’incoronazione di re Trump dice molto sulla debolezza del capitalismo odierno rispetto alla politica.

Il MAGA è, infatti, portatore (non sano) di una malattia invisibile ai medici ma evidente a chiunque altro: un deficit secco di empatia col prossimo e con la natura. Ce ne freghiamo dei migranti e del clima. Dobbiamo ricominciare a pensare a noi stessi. Il nostro rivale davvero temibile è la Cina perché insidia la nostra base produttiva e occupazionale. La Russia è un pericolo per l’Europa, ma non per noi. Quindi diamogli pure l’Ucraina e poi se la vedano tra loro nel Vecchio Mondo. Il deficit di empatia riporta in voga quella che ormai più di settant’anni fa Adorno definiva «personalità autoritaria»: conformismo, xenofobia, proiettività (l’idea che il mondo esterno sia contro di noi) e antisemitismo.

Con l’assenza dell’ultimo indicatore (almeno per ora) è questa personalità a tenere stretti insieme Trump e i suoi seguaci. Assaltatori del Campidoglio con le corna di bufalo compresi. Del resto è un paradosso che la ricerca storica incrocia quasi ad ogni passo: gli uomini (soprattutto maschi) che arrivano a posizioni di potere ci riescono perché nella loro mente hanno spazio solo per sé. Socialmente sono dei disadattati: incapaci di fermarsi davanti a un tramonto, spesso pessimi mariti e pessimi padri. Leggere la biografia della moglie di Gandhi (B.M.Bhalla, Kasturba Gandhi: A Biografi, 2020) per avere la conferma che non ti aspetti. Per Trump, che è personaggio assai più modesto, basta il conto del parrucchiere che risulta dalla sua dichiarazione dei redditi: 70 mila dollari l’anno, 190 dollari al giorno. Che gli servono anche per pagare solo poche centinaia di dollari al fisco.

Possiamo chiamare fascismo tutto questo? Anche sì, se si passa da Trump al suo vice Vance, cioè dal cinico al fanatico. L’incontro con Alternative für Deutschland a una settimana dal voto in Germania rompe con ogni senso delle istituzioni (per le ragioni suddette) e, volendo enfatizzare, rivolta nella tomba i 180 mila caduti americani nella guerra contro i predecessori di Alice Weidel.

Ma non serve a molto definire fascista uno come Trump. Perché la storia non si ripete mai uguale e le comparazioni servono a svelare le differenze, non le analogie. Non c’è alle spalle di Trump una guerra e il carico di violenza che ne consegue (come invece c’era alle spalle di Mussolini e Hitler). C’è alle spalle di Trump un disegno neoimperiale (le pretese su Panama e Groenlandia) ma in chiave di competizione commerciale anticinese per il controllo delle rotte oceaniche e (un domani) polari.

C’è alle spalle di Trump un organico piano protezionistico che muove da impulsi elementari (riequilibrare la bilancia dei pagamenti) ma ignora semplici dati di fatto. È dal 1945 che gli Stati Uniti perdono costantemente terreno come quota di prodotto lordo mondiale, perché le loro industrie sono inserite in catene del valore globale che importano semilavorati (l’etichetta sull’iPhone reca scritto «assembled in China»).

Sarà difficile risuscitare un apparato industriale indigeno solo facendo pagare di più i prodotti importati dall’estero. In compenso (per così dire) la storia invece insegna che l’adozione di regimi protezionistici rompe la collaborazione tra governi e prepara il terreno alle guerre. Alla fine rimane il disegno di smantellare la complessa architettura internazionale che ha permesso dal 1945 un equilibrio spesso instabile ma fondato su principi riconosciuti – almeno a parole e spesso nei fatti – da tutte le potenze uscite vittoriose dalla guerra.

L’illusione è di risuscitare un congresso di Vienna a due più uno (Stati Uniti e Cina, più la Russia) cancellando le Nazioni Unite e gli altri organismi sovrannazionali (WTO, WHO, UNESCO, FAO). Vedremo se ce la fanno: insieme rappresentano meno di un quarto della popolazione mondiale e naturalmente sono tutt’altro che d’accordo tra loro. 

Il quadro non sarebbe però completo (almeno nelle intenzioni) se non si parlasse di chi a Trump ha spalancato le porte: un partito democratico che ha fatto di tutto per far sembrare fondate le accuse di Trump e in particolare quella di essere ormai ostaggio di poche dinasty (Biden, Obama, Clinton) senza più rapporti con il popolo. Riproporre per un altro mandato un presidente ottantunenne può venire in mente solo a un partito che partito (cioè intellettuale collettivo) non è più da tempo.

E, finché rimane dalle parti di Judith Butler che analizza Trump in termini di (testuale) «follia sadica», la sinistra USA è destinata a non capire niente del paese in cui vive e quindi a perdere giustamente tutte le elezioni. Andate a vedere il sito di Swing Left per capire da dove il partito democratico può e dovrebbe ripartire: l’unico spiraglio di luce, a noi sembra, in questa nuttata. Anche Elly Schlein potrebbe capire cosa bisognerebbe che facesse.

Native

Articoli correlati