Le guerre nascono dall’incapacità di ascoltare gli altri
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Le guerre nascono dall’incapacità di ascoltare gli altri

Quello che drammaticamente accade oggi in Iran è il risultato delle scelte assolutistiche di Trump. Un vero leader non è colui che sbraita ma colui che include.

Le guerre nascono dall’incapacità di ascoltare gli altri
I cieli di Tel Aviv in questi giorni di conflitto.
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23 Giugno 2025 - 22.48 Culture


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di Giovanni Gozzini*

La storia insegna che le guerre cominciate senza obbiettivi precisi difficilmente vengono vinte. Il XXI secolo (ma non solo) è prodigo di esempi a riguardo: Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Ucraina e Gaza (con ogni probabilità pure Iran) sono quelli più recenti. La ragione è sempre la stessa: gli eserciti stranieri cercano di sostituirsi ai popoli indigeni per suscitare cambiamenti che soltanto i popoli possono determinare. Possono essere solo i palestinesi a liberarsi di Hamas, altrimenti è fatale che per ogni militante ucciso dagli israeliani ne nascano altri ancora più avvelenati dall’odio. Possono essere solo gli ucraini a decidere il loro governo, non i russi. Possono essere solo gli iraniani a decidere di non avere la bomba atomica. E naturalmente possono deciderlo solo se si sentono protetti da un contesto internazionale che garantisca loro di vivere in pace. Cioè un quadro internazionale di regole condivise.

Ora il problema è che la presidenza Trump prima ha stracciato l’accordo che prevedeva ispezioni e controllo delle sperimentazioni nucleari iraniane. Poi si è unita alla guerra condotta da Israele per distruggere unilateralmente e con la forza quelle sperimentazioni. Ma è del tutto probabile che questa azione entri in una spirale di rappresaglie e ritorsioni, alla fine della quale (ma dopo molti, troppi morti e feriti) Trump debba ritirarsi in modo non dissimile d quello dei suoi predecessori: le guerre nascono dall’incapacità di ascoltare gli altri.

Quello che drammaticamente  accade oggi è il risultato delle scelte assolutistiche di Trump. Un vero leader non è colui che sbraita ma colui che include. Obama in Libia, Biden in Afghanistan per non risalire fin troppo indietro a Nixon in Vietnam.Del resto quale può essere la legittimazione di un club di potenze nucleari (Usa, Russia, Francia, Gran Bretagna, Cina, Pakistan, India, Corea del nord, Israele) che impedisce alle altre di averne? Perché ciò che vale oggi in Iran non vale per la Corea del nord?

L’unica legittimazione plausibile può appunto essere che il club dei privilegiati si impegni a rispettare l’inviolabilità delle nazioni che privilegiate non sono. Ma nei pochi mesi della sua seconda amministrazione Trump ha già manifestato in abbondanza il proprio evidente difetto mentale: la mancanza di empatia con il prossimo. È un difetto mentale grave, fatalmente esiziale per l’essenza stessa della democrazia, che sta appunto nella capacità di dialogo e di ascolto del parere altrui. Trump cerca di cancellare tale qualità nominando solo persone di cui si fida (alla Corte Suprema, al Pentagono) e boicottando quelle di cui non si fida (nei tribunali, nei ministeri, nei media). Il sistema di autonomia dei poteri legislativo, esecutivo, giudiziario va a farsi benedire. E gli Stati Uniti, almeno nella mente (malata) del loro comandante in capo, cercano di assomigliare alla Russia di Putin, alla Cina di Xi, alla Turchia di Erdogan.

Lo stesso avviene più o meno nella politica estera. Finora il battere il pugno sul tavolo della Casa Bianca ha prodotto l’effetto peggiore: debole con i forti (Putin, Netanyahu) e forte con i deboli (Ucraina, Gaza). Il risultato è la crescita a dismisura del caos: è chiaro che Xi si sentirà autorizzato a usare lo stesso metro Usa con Taiwan. E a quel punto Trump si sarà cacciato in un bruttissimo vicolo cieco, da cui sarà possibile uscire solo in due modi: con una ritirata (gesto di cui solo gli esseri umani empatici possono essere capaci) o con una guerra frontale.

Chiunque ha fatto un po’ di sport (o in alternativa ha letto Intelligenza emotiva di Daniel Goleman) sa che il vero leader non è quello che sbraita, bensì quello che include: che mette ogni suo compagno su una base di fiducia e nel ruolo che gli si confà per rendere al meglio. Il tipo di ordine mondiale (e di potenza Usa) di cui avremmo bisogno è proprio questo: multipolare perché non esistono più gendarmi del mondo, inclusivo perché fondato sulla condivisione di principi di buon senso, ovvero l’inviolabilità delle frontiere e la diplomazia come terreno pacifico di risoluzione delle controversie. In Europa ci siamo riusciti dopo millenni di guerre. Perché non dovrebbe riuscire al mondo?

Quasi mai si riflette sul perché siamo oggi in questa situazione orribile. La risposta sta in un grafico che trovate sul sito di Polity 5 curato dal Center for Systemic Peace: dal 1945 il numero di democrazie nel mondo è in costante aumento. Non è una marcia trionfale, anzi è piena di blocchi e inversioni di tendenza. Ma il senso è chiaro. Quando nel 2014 Putin vede in piazza a Kiev giovani con la bandiera dell’Unione Europea (e non più con quella degli Usa che sventolava alla caduta del muro di Berlino), prende paura. Ed è una paura mortale. Se ragazzi che hanno fatto parte dell’URSS cominciano a parlare di democrazia e la vedono concretamente alle porte di casa (e non più al di là dell’oceano Atlantico) le cose possono mettersi davvero male. E allora bisogna reagire. A differenza dei fascismi nati dalla Grande Guerra, i fascismi odierni non hanno grandi progetti di nuovi ordini alternativi e antagonisti alla democrazia. Pensano a difendersi e a resistere, costi quel che costi. E provano a trascinarci nel baratro che di solito sanno fare meglio: la violenza della forza.

Per tutta risposta le democrazie devono fare come i bravi poliziotti. Isolare e neutralizzare i pericolosi, convincere gli altri a seguire le regole. Dialogo ed esercizio controllato della forza. Qualcuno in passato l’ha chiamata egemonia: persuadere il prossimo delle proprie ragioni perché mirano a costruire un mondo migliore per tutti, anche per i propri avversari. Servirebbe come il pane qualcuno alla Casa Bianca capace di parlare e agire così. E non di gridare “arrendetevi” come si faceva all’asilo.

*Giovanni Gozzini è professore ordinario di Storia contemporanea presso l’Università di Siena

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