L’ipocrisia del Juneteenth federale impassibile della schiavitù moderna
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L’ipocrisia del Juneteenth federale impassibile della schiavitù moderna

La schiavitù è stata abolita ma gli schiavi esistono ancora: sono le spose bambine, i detenuti, i lavoratori in nero e tanti altri.

L’ipocrisia del Juneteenth federale impassibile della schiavitù moderna
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25 Giugno 2025 - 17.25 Culture


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di Arianna Scarselli

Il 19 giugno è stata celebrata la Giornata Nazionale dell’Indipendenza del Juneteenth, che commemora la fine della schiavitù negli Stati Uniti. Storicamente nota come Giornata dell’Indipendenza o Giornata dell’Emancipazione, da quattro anni è divenuta festa federale anche se le prime celebrazioni si svolsero nel 1866. La data non è casuale e cade lo stesso giorno in cui Gordon Granger, generale delle armate degli Stati dell’Unione, proclamò l’obbligo di liberare tutti gli schiavi del Texas, ultimo stato della Confederazione a non aver ancora abolito la schiavitù.

C’è un qualcosa di amaro in tali celebrazioni che si svolgono nella più totale ipocrisia e negazione della realtà. Sebbene la schiavitù per come viene studiata nei libri di scuola non esista, questa si è evoluta, ha mutato forma, facendo tuttavia sempre parte del nostro mondo. Ciononostante abbiamo paura a definirla “schiavitù”, o addirittura abbiamo paura a definirla in alcun modo. È divenuta un sostantivo potente che, tuttavia, abbiamo relegato alla Storia e raramente utilizziamo per descrivere quanto accade oggi.

La schiavitù odierna si presenta in forme nuove, fluide, che evolvono continuamente e permeano anche gli Stati Uniti. Negli USA sono migliaia ogni anno le spose bambine, spesso provenienti da famiglie immigrate e vittime di matrimoni combinati per far ottenere un visto a qualcuno. Sono inoltre tantissimi i casi di matrimoni riparatori a seguito di gravidanze indesiderate o stupri.  Fenomeno difatti trasversale alle culture, al credo religioso e alle etnie, col comune denominatore rappresentato dalla povertà e dalla scarsa istruzione. Un Paese come l’America, che spesso costringe a contrarre debiti per centinaia di migliaia di dollari per studiare o anche solo curarsi, non ha certo grandi prospettive di miglioramento sotto questo punto di vista.

È schiavitù anche quella dei lavori obbligatori nelle carceri, pratica introdotta dal XIII Emendamento alla Costituzione statunitense che, nel 1865, abolì la schiavitù e il “servizio non volontario” ad eccezione che questo fosse una forma di “punizione per un crimine per cui la parte sarà stata riconosciuta colpevole nelle forme dovute che potranno esistere negli Stati Uniti”.

In Alabama la pratica di impiegare detenuti in attività economiche e commerciali è realtà: grandi catene come McDonald’s o KFC fanno uso di tale forza lavoro a basso costo per la quale non si applica il salario minimo federale ( e inoltre non esistono regolamentazioni statali sul tema in Alabama). Fece scalpore il caso che scoppiò nel 2014, quando in Colorado circa 1.600 detenuti vennero obbligati a lavorare nelle linee di produzione di mobili, riparazioni auto e difesa di industrie private con una paga inferiore a un dollaro l’ora.

Oggi la gestione di molte strutture detentive è completamente o parzialmente appaltata a privati e questo crea un grosso dilemma etico-morale: se il privato per guadagnare ha bisogno che il carcere sia pieno, è giusto che lo diriga? Nonostante negli States viva meno del 5% della popolazione mondiale, la percentuale di detenuti negli USA è pari a circa il 25% della popolazione carceraria globale. Senza tutele, senza formazione, con i diritti più basilari compromessi, i detenuti sono la maggioranza degli schiavi della Nuova America, celati in bella vista. Come dimenticare poi le tristemente famose immagini che ritraggono decine di clandestini in fila indiana incatenati l’un l’altro, pronti ad essere deportati. Una visione che inevitabilmente traccia un parallelo col colonialismo di cui leggiamo sui libri di storia.

Nel frattempo quei Paesi classificati come Terzo Mondo continuano a essere il nostro “cheat sheet”, una zona grigia non ben definita dove tutto è permesso e di cui possiamo disporre a nostro piacimento risorse e forza lavoro. Lavoratori pagati pochi spiccioli per turni di lavoro estenuanti, spesso esposti a sostanze tossiche in ambienti non sicuri, dove i diritti vengono calpestati ogni giorno.

L’incidente di Rana Plaza sembrava avesse scosso le nostre coscienze, ma abbiamo dimenticato in fretta le 1.134 persone morte lavorando alla produzione degli abiti poi venduti nelle catene del fast fashion che pullulano le nostre città. Capi spesso prodotti a decina di migliaia per modello e che si differenziano solo per il nome del brand posto sull’etichetta.  Le stime affermano che nel mondo ci siano circa 160 milioni di bambini che lavorano nei campi, nelle miniere, nelle fabbriche ma anche nei negozi, dove chi li vede li ignora e loro diventano fantasmi. Bambini senza possibilità di studiare, di costruirsi un’altra vita e di decidere per loro stessi.

È ipocrita festeggiare la fine della schiavitù quando questa è la realtà in cui viviamo. Il nostro mondo così moderno, tecnologico, e volto all’efficienza è spesso una matrioska che cela una realtà fatta di sfruttamento, precariato e abusi.

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